Amarcord . pensieri e parole. 1998 - 2005 . Marzo/Aprile 1999

IL VERDE: SOLO SPERANZA?        di  Gianfranco Vecchiato


“È questa una strada assai comoda,

larga, piana, sicura, ben tenuta e di
continuo frequentata da viandanti e
da solazzieri a piedi, a cavallo, in carrozza”.
Dall’una e dall’altra parte è piantata
d’altissimi frondeggianti alberi che nella
estate rendono più dilettevole il passaggio,
ornato di case, palazzi e giardini
particolarmente dei Patrizi Veneti,
cittadini e mercanti più opulenti.
Aquesta si portano in poche ore anche
per godere i divertimenti della
campagna che a lunga vista d’occhio
li circonda, fertile d’ogni sorta di
frutti, biade, d’armenti e con grande
industria coltivata…. (Vincenzo Coronelli,
cartografo. Anno 1697: Il Terraglio.).
Questa descrizione della antichissima
strada del “Terraglio” è per molti
aspetti signifcativa non solo del
grande ruolo economico ma del carattere
ambientale e simbolico che
essa ebbe nel periodo della “civiltà
delle ville”.
Epoca in cui il patrizio veneziano Girolamo
Priuli lamentava come i suoi
colleghi, trascurando i commerci marittimi
“volevano triunfare et vivere et
atendere a darsi piacere et delectatione
et verdure in terraferma” per
cui i capitali furono trasferiti dal mare
alla terra con la villa veneta intesa
come il cuore di un’azienda agricola.
Il Terraglio è una strada citata di frequente
negli Statuti trevigiani, e che
deriva il suo nome dal latino “Terraleum”
a motivo del terreno battuto e
del terrapieno accumulato ai lati di
un corso d’acqua artifciale che un
tempo collegava Mestre a Treviso e
dal cui scavo sembra fosse originariamente
costituita. Immensi parchi
e giardini e ville di grande bellezza
si susseguivano lungo i 20 chilometri
di un percorso che nel ‘600 e ‘700
era considerato tra i luoghi di villeggiatura
più frequentati.
Oggi la strada del Terraglio, rettifcata
in epoca napoleonica fno a
qualche lustro fa tra le più belle e
meglio conservate strade d’Italia è
un asse dove, specialmente nel tratto
interno al Comune di Venezia,
stanno quotidianamente sbiadendo
i segni di una civile antica presenza,
stravolta da sovrappassi, sottopassi,
tangenziale, ipermercati, taglio
radicale e defnitivo di sempre
più estesi flari ornamentali di platani,
malati di “cancro colorato” e non
più sostituiti.
Questa sorte è toccata a quasi tutti
gli antichi assi stradali regionali, impoveriti
per collasso urbanistico ed
ambientale.
Al più del 50% medio di alberature
mancanti lungo il Terraglio, si aggiungono
il 65% lungo la Riviera del
Brenta, il 55% lungo la via Miranese,
il 70% lungo la Castellana, e la
quasi scomparsa lungo i tratti che attraversano
i colli Euganei, la pedemontana
Asolana, la Padana inferiore,
sulle strade verso Oderzo, etc.
L’indifferenza della pubblica opinione a
questo aspetto un tempo fondamentale
della ricchezza del paesaggio veneto
e del suo assetto territoriale, se manifesta
l’attuale povertà culturale investe
anche il nostro mestiere e l’architettura
come forma della mente.
Ci sono indubbie responsabilità amministrative,
in parte giustifcate dalle nuove
norme del Codice della Strada che
non ha considerato il valore paesaggistico
degli antichi flari lungo le vie e se
giustamente considera la “sicurezza” un
bene primario, non dovrebbe però favorire
lo scempio a cui si sta generalmente
assistendo: autocarri, capannoni,
polverizzazione degli interventi, mancanza
di programmazione, etc.
Questo stravolgimento dell’antica “anima”
regionale, dal passato eminentemente
agricolo e più povero, si legge
attraverso l’architettura del paesaggio,
anche nella devastazione delle alberature
ornamentali, sostituite da cartelli
pubblicitari, antenne, tralicci, vuoti.
Sembra che la maggior parte della gente
si sia totalmente disinteressata nei
confronti di un’idea di comunità, di un’idea
di civiltà, del concetto di “bellezza”
che implica un’idea delle relazioni e dei
rapporti tra uomini e cose.
Anche il venir meno dell’estetica come
valore sta determinando un abbassamento
grave della qualità della vita.
Il grande sviluppo scientifco ed economico
di questi ultimi decenni non è stato
seguito da un analogo sviluppo della
ricerca estetica e dell’educazione all’estetica
tra la gente e nelle strutture
amministrative delegate a gestire i cambiamenti.
L’architetto deve tornare ad occuparsi di questi problemi e di impegni che 
diano senso alla sua stessa presenza
sociale e civile.
Le case, le strade, gli alberi, il paesaggio,
sono inscindibili dal nostro futuro
così come dal nostro passato e debbono
essere in relazione sia con le trasformazioni
che con la storia.
Lasciare un luogo un po’più ricco di valori
e di bellezza da come lo abbiamo
ereditato non deve essere una utopia,
ma il fne ultimo del ruolo professionale
e della ragione dell’architettura.
Perciò anche negli alberi tagliati lungo
di questi problemi proponendo valori che
le strade, nelle immagini sempre più rare
di spazi aperti, nelle cementifcazioni
di argini, nella perdita della memoria,
si distrugge un rapporto delicato, pensato,
costruito tra architettura, ambiente,
tempo e memoria.
Ed il futuro non può essere fondato su
questo; in molte regioni europee lo si è
compreso da sempre e più tenace diviene
la salvaguardia di tutte le testimonianze
che sono state il segno culturale
distintivo ereditato dalle precedenti
generazioni.
Se non sapremo batterci per il rispetto
della memoria, ed il nostro messaggio
alle generazioni future restasse cosi debole,
sarà inevitabile che anche le testimonianze
del nostro tempo saranno
eliminate nel volgere di qualche decennio.
Credo che non sia a questo che l’architettura
in quanto disciplina, debba o voglia
tendere.
L’architettura dell’effmero non appartiene
alla radice culturale delle relazioni
che hanno costruito, passo dopo passo,
anche il mondo contemporaneo.







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