Amarcord - pensieri e parole- 1998/2005 . Nov./Dic. 1999



LA GLOBALIZZAZIONE                                                di Gianfranco Vecchiato


A Seattle negli Stati Uniti si è tenuta nelle scorse settimane la riunione dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) con l’obiettivo di stabilire un coordinamento e nuove
regole nei mercati internazionali per i prossimi anni.
Questo obiettivo non è stato fin qui raggiunto per l’inconciliabilità delle diverse posizioni fra Paesi industrializzati ed in via di sviluppo.
Purtuttavia la cosiddetta «globalizzazione dei mercati» sta producendo fenomeni, non solo economici, così interdipendenti da rendere necessarie riflessioni e cambiamenti sul processo tumultuosamente dinamico assunto dallo sfruttamento delle risorse ambientali del
Pianeta. Fiumi, mari, foreste, urbanizzazione dei territori, cambiamenti climatici, stili di vita, aumento della popolazione mondiale, concezione del nostro rapporto con il tempo, sono in
questo secolo XX, profondamente cambiati.
E ciò è avvenuto specialmente nel corso degli ultimi trenta-quarant’anni.
Un tempo assai breve per consentire alle generazioni che lo hanno attraversato ed a quelle che seguiranno, di controllarne appieno gli effetti. Tutto ciò non dovrebbe muovere la nostalgia per epoche di miseria vissute dalle generazioni precedenti ma il rispetto per il patrimonio culturale che ci proviene dal passato.
Le dimostrazioni che hanno caratterizzato all’esterno i lavori del Congresso del Wto, sono il sintomo delle preoccupazioni per uno sviluppo caratterizzato dalla progressiva eliminazione
delle biodiversità a causa delle specializzazioni in agricoltura, per i disboscamenti di aree essenziali per l’equilibrio della vita sulla Terra, per la distruzione delle risorse, per l’urbanizzazione progressiva di territori con megalopoli incontrollabili di decine di milioni di abitanti. Cresce da un lato una diffusa povertà (oggi tre miliardi di persone, hanno un reddito
inferiore a 4 mila lire al giorno) accanto alla crescita finanziaria dei mercati che non produce
ricchezza reale e non svolge una funzione di cambiamento delle istituzioni e della democrazia nei Paesi più poveri.
L’architettura in questo complesso scontro di interessi e di ragioni, appare come una pagliuzza sballottata dai marosi di un mare in tempesta. Eppure sarà questa una tra le parole chiave del XXI secolo. Essa non è infatti solo il prodotto della mente dell’uomo, delle sue capacità artistiche, del suo ingegno, ma anche il prodotto della natura, il risultato di un processo evolutivo lungo milioni di anni. Quel processo che ha «disegnato» il mondo che abitiamo, che è complessivamente la nostra casa comune. Quei «paesaggi ormai perduti» visti dai viaggiatori di due secoli or sono e che Goethe, Stendhal, Byron ci hanno tramandato nella letteratura. Quei paesaggi non siamo oggi più in grado di tramandare ai posteri.
I nostri itinerari si sono fatti via via più faticosi, più sgraziati, più vuoti di bellezza e più «riempiti» di cose. Anche il nostro mestiere di architetti è divenuto via via un’altra cosa;
abbandonando con un po’ di rimpianto il senso quotidiano di una lotta divenuta impari per stare nelle nuove «regole del gioco». Attorno alla struggente e decadente bellezza delle Ville Venete che aveva raccolto nella sua vita Giuseppe Mazzotti, non ci sono più la pianura
con i suoi prati, i suoi orti, i suoi boschi, i suoi colori. Le luci e le nebbie attraversano in maniera astratta gli spazi creati per accoglierle; attorno è quasi sempre un anello di case e capannoni.
In un’intervista sul fenomeno dei piani di industrializzazione per il sud degli anni ’60, Vittorio Foa, riconosce che nella necessità di creare cultura industriale fu un errore ignorare il paesaggio. La logica , disciplina inaugurata da Aristotele, ci dice che la forma è sostanza.
Come architetti lo avevamo sempre saputo ma ora ci si chiede di dare forma alle sfide che provengono da mondi un tempo lontani dal nostro pensiero.


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